Capitolo 8: I giorni dell'aquila

Abbiamo appena finito di pranzare in un parco pubblico, dopo aver cucinato su delle magnifiche piastre all'aria aperta, quando, nel rimuginare di sfortune e piani saltati, un pizzicorino fastidioso comincia a farci prudere la base del naso. Un'idea. Un'ironica realizzazione dettata dallo sconforto.
Se fino ad adesso abbiamo inutilmente provato a prepararci ad ogni evenienza e a parare le sfortune, perché da adesso, invece, non assecondarle?
Se il meteo, le montagne e la Natura tutta hanno stabilito di buttarci giù con ogni mezzo, allora buttarci giù sarà esattamente quello che faremo. Nello specifico, ci butteremo giù nel posto in cui buttarsi giù è diventata una tradizione.
Con occhiate divertite e terrorizzate allo stesso tempo, impostiamo il navigatore: Kawarau Bridge.
Un sito storico, per gli standard dei kiwi, ma forse questa volta lo è davvero.
Sì perché su questo ponte, alto 43 metri, è nato il primo centro di Bungy Jumping del mondo.
Due verifiche di disponibilità, prenotiamo ed è fatta, siamo in lista. Quando la mattina dopo ci svegliamo in riva al lago - per una volta senza moscerini - siamo più silenziosi del solito.
I ruoli si ribaltano, come più tardi si ribalteranno i nostri stomaci; Mercedes spavalda, che annuncia addirittura un tuffo in acqua (dura pochissimo e arriva a malapena alle caviglie), Chuck si fa riflessivo, mentre Lombardia... assume un colorito giallognolo. Arrivati in loco siamo pronti per il check-in: questionario medico, pesata, imbracatura e via sul ponte, dove lo staff opera un'esperta analisi psicofisica dei soggetti per capire come maneggiare il materiale umano in procinto di lanciarsi nel vuoto. Stranamente, non c'è alcuna discussione per decidere l'ordine di lancio e mi calo sulla pedana, dove un tipo palestratissimo mi insalama con la velocità di una macchina e mi fa un paio di domande per stabilire il mio stato d'animo.
Sono gasato MARCIO.
L'idea di poter finalmente soddisfare i pensieri intrusivi di Chiamata del Vuoto mi esalta, e non faccio nessuna fatica a fidarmi delle corde e dei moschettoni, quindi in men che non si dica sto zampettando come un pinguino sull'asse, con un sorriso ebete stampato sul volto.
Alla fine del conto alla rovescia, tento un imbranato salto in avanti e sento mancarmi l'aria nei polmoni, poi, dopo pochi secondi, il mondo rimbalza al contrario e aspetto paziente il canotto di discesa. Con invidiabile prontezza di spirito, afferro alla prima il bastone di recupero (i miei compari meno fortunati dovranno godersi qualche secondo aggiuntivo nei panni dei prosciutti), ma sceso a terra, ho l'impressione che il corpo sia ancora in aria. Se il tutto ha avuto una durata totale di due minuti scarsi, l'adrenalina non lascia il mio corpo fino a tre ore dopo, quando crollo addormentato sul tragitto verso Te Anau, la nostra tappa più meridionale.
Sotto la doccia calda, ancora un po' stordito, mi sorprendo a immaginare un altro lancio

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